03/03/2017 - Articoli, Notizie
Un mare di immondizia
Dal 1997 quando l'oceanografo Charles Moore scoprì la prima 'isola di plastica' nel Pacifico si sono moltiplicati gli studi di ricerca in questo settore. Ma quanto è grave questo fenomeno? Ecco alcuni dati che possono chiarire le idee
La plastica è stata inventata verso la metà dell'Ottocento tuttavia la produzione di massa è iniziata solo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e, nel corso degli ultimi quarant’anni, la fabbricazione mondiale è aumentata in maniera esponenziale.
Dall’inizio degli anni ‘80 infatti sono aumentati i settori in cui questo materiale viene impiegato e solo tra il 2002 e il 2013 la produzione globale è passata da 204 tonnellate a 299, come afferma uno studio condotto da Greenpeace. Per molto tempo nessuno si è posto il problema dello smaltimento di questi rifiuti e si è pensato che la soluzione all’inquinamento fosse la diluizione.
Gli studi sull’inquinamento indotto da questo materiale hanno avuto inizio solo nel 1997 quando l’oceanografo Charles Moore, tornando in California dopo una regata, scoprì la prima “Pacific Trash Vortex” nota anche come “grande chiazza di immondizia del Pacifico” tuttavia la ricerca in questo campo è resa difficile dalla necessità di coinvolgere vari settori di ricerca: dall’oceanografia alla gestione dei rifiuti solidi.
“La scoperta di questa ‘isola’ di spazzatura fu del tutto casuale, - ha raccontato Moore in un’intervista - non era un’isola di plastica come la gente si ostina a dire, semplicemente per un periodo di tempo non riuscì a vedere la superficie del mare e mi resi conto che tutto quello che vedevo dal ponte era plastica. In un certo senso la scoperta vera è avvenuta nel 1999, quando ci siamo resi conto delle dimensioni del fenomeno”.
Tra il 2010 e il 2014 Andre Cozar Cabanas, professore dell’Università di Cadice, insieme al suo team, ha completato una mappa dei rifiuti presenti negli oceani rilevando milioni di tonnellate di rifiuti di plastica che galleggiano in cinque vortici subtropicali nei mari di tutto il mondo. Nonostante questo terribile risultato Cabanas e i suoi hanno rilevato come all’appello mancassero ancora migliaia di tonnellate di plastica, infatti si sono limitati a censire le grandi isole di plastica galleggianti che escludono quella grande quantità di ridotte dimensioni che vanno dal micron al millimetro.
L'effetto che questi frammenti di plastica potrebbero avere sulle profondità oceaniche - l'ecosistema più ampio e meno esplorato del pianeta - è ancora un mistero. "Tristemente l'accumulo di plastica potrebbe modificare questo ecosistema così enigmatico prima ancora di lasciarci la possibilità di conoscerlo davvero", ha dichiarato Cozar al National Geographic.
Come ha rilevato Cozar pare che il problema maggiore non sia rappresentato dalla plastica solida che, trasportata dalle correnti oceaniche, converge in corrispondenza dei cinque vortici subtropicali ma da quella inferiore ai 5 mm chiamata anche microplastica.
Le microplastiche possono essere prodotte dall’industria umana (molto spesso cosmetica) o derivare dalla degradazione di oggetti in plastica più grandi. Gli organismi marini possono ingerire questi materiali in diversi modi a seconda della loro natura e questo può danneggiarli direttamente o indirettamente: per esempio possono verificarsi lesioni negli organi dove avviene l'accumulo o trasferimento di contaminanti tossici dai frammenti di plastica ai tessuti degli organismi che li ingeriscono.
È stato dimostrato che oltre 200 specie di animali tra cui tartarughe, uccelli marini e pesci mangiano questi rifiuti e un nuovo studio pubblicato su Science Advanced dimostra che, per gli abitanti del mare, dal plancton alle balene, la plastica assume l’odore del cibo e questo li induce a nutrirsi di questo materiale, altamente tossico per la loro salute. "Nella letteratura al riguardo si trovano passaggi in cui viene dato per scontato che gli animali 'scelgono' di mangiare plastica, ma manca una prova o una spiegazione del perché ciò avviene", dice Chelsea Rochman, biologa dell’Università di Toronto al National Geographic. "Questo è il primo gruppo di ricerca aver approfondito la questione”.
Anche la situazione italiana non è rosea: secondo i più recenti dati diffusi da Legambiente, in media sulle spiagge italiane ci sono 714 rifiuti ogni 100 metri, la cui maggioranza è costituita da oggetti o frammenti di plastica. Questi sono solo dati parziali della drammatica situazione che si sta creando nei mari di tutto il mondo. All'interno di questa piattaforma, oltre a raccontare gli sviluppi sul progetto 'Il mare in 3d', dedicheremo molto spazio a descrivere e raccontare quello che succede nel mondo in questo settore e quali sono gli sviluppi della ricerca.
Gianluca Pedemonte