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17/03/2017 - Articoli, Notizie

La plastica nel piatto: rapporto di Greenpeace. Parte II

La plastica nel piatto: rapporto di Greenpeace. Parte II
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All'interno del rapporto pubblicato da Greenpeace sull'inquinamento da microplastiche della fauna ittica c'è spazio anche per considerare i potenziali effetti che queste contaminazioni potrebbero avere sull'uomo.

Nello scorso articolo abbiamo riportato alcuni dati pubblicati da Greenpeace nel 2016 sugli effetti che le microplastiche potrebbero avere sulla fauna marina e sull’ambiente. Soprattutto ci siamo soffermati sull’impatto e sui rischi di contaminazione della catena alimentare da parte della plastica. Infatti come riporta il rapporto “Plastics in seafood” uno dei problemi derivanti dalla presenza di microplastiche in mare è il rischio di un trasferimento e accumulo lungo la catena alimentare per l’ingestione, da parte dei predatori, di prede contaminate.

Uno studio condotto nel Pacifico del Nord su pesci che si nutrono di plancton ha rilevato la presenza di questo materiale nel 35% dei casi. A causa della catena alimentare questi pesci potrebbero diventare preda di altri pesci più grandi che, a loro volta, potrebbero diventare nutrimento per i grandi predatori, spesso fonte di nutrimento anche per l’uomo, come il tonno. Secondo Greenpeace  “il trasferimento di microplastica lungo la catena alimentare è stato confermato da studi in cui granchi comuni, nutriti con cozze contaminate con microplastiche, mostravano la presenza di questo materiale anche 21 giorni dopo l’ingestione di cozze contaminate”.

Numerose analisi di laboratorio hanno confermato che esistono due diverse tipologie di effetti causati dall’ingestione di microplastiche. Nel primo caso si tratta di effetti fisici ovvero  quando il materiale danneggia gli organi nei quali viene accumulato dopo l’ingestione da parte della fauna ittica. Nel secondo caso invece si tratta di effetti chimici che causano il “trasferimento e l’accumulo di sostanze inquinanti” contenute nelle microolastiche.

Alcuni esperimenti condotti su esemplari di Spinole nutrite con PVC (materiale noto anche come polivinilcloruro che viene utilizzato per uso tessile e industriale) per novanta giorni hanno evidenziato “danni di natura fisica, come lesioni al tratto intestinale, sia in individui nutriti con frammenti di plastica contaminata sia in animali nutriti con plastica non contaminata”. Questi esempi riportati da Greenpeace dimostrano che la sola ingestione di microplastica da parte della fauna ittica può causare gravi danni sulla specie, indipendentemente dal fatto che questo materiale sia contaminato oppure no.

Tuttavia esistono anche studi condotti su esemplari di cozze nutrite con pirene (un idrocarburico policiclico aromatico (IPA) utilizzato per la produzione di coloranti) che “mostravano una concentrazione più elevata di questa sostanza nell’intestino e nelle branchie (ovvero in quegli organi in cui le microplastiche vengono accumulate in maggior quantità) rispetto ad animali nutriti con plastica non contaminata, confermando quindi il trasferimento di questo inquinante dalla plastica ingerita ai tessuti delle cozze”. Infatti uno degli aspetti più preoccupanti di questo fenomeno riguarda proprio il trasferimento di sostanze chimiche tossiche dalla plastica agli organismi che le ingeriscono.

Oltre al problema delle microplastiche esiste quello dei “contaminanti organici persistenti (POP), come i pesticidi che possono essere assorbiti dai frammenti di plastica più comuni come il polietilene, polipropilene o nylon, arrivando a concentrazioni fino a un milione di volte più alte di quelle dell’acqua di mare circostante” e secondo alcuni studi condotti sui pesci arcobaleno “gli esemplari esposti a microplastiche contaminate con ritardanti di fiamma (PBDEs) hanno mostrato concentrazioni molto più alte di tali sostanze chimiche rispetto al gruppo di controllo”.

Anche se gli studi in questo settore sono ancora agli albori esiste poi il pericolo di contaminazione per l’uomo attraverso il consumo di prodotti ittici. Il pericolo principale, come riporta Greenpeace, potrebbe derivare dal consumo di molluschi che vengono consumati interi.  “Anche se al momento è difficile definire i possibili rischi per la salute umana sono stati identificati una serie di problemi (ancora oggetto d’indagine) che potrebbero derivare dall’ingestione di microplastiche tramite prodotti ittici contaminati: dalla diretta interazione tra le microplastiche e i nostri tessuti e cellule, fino a un ruolo come fonte aggiuntiva di esposizione a sostanze tossiche”. Alcune di queste sostanze come Bisfenolo A, Ftalati, Nonilfenoli (NP) e i residui di pesticidi come il DDT e gli Esaclorocicloesani (HCH) potrebbero avere degli effetti devastanti sia per la fauna ittica che per gli esseri umani infatti uno dei principali problemi riscontrati riguarda il sistema riproduttivo, sono inoltre considerati responsabili di alcuni problemi di sviluppo a livello neurologico e comportamentale in alcuni animali e nell’uomo e infine quasi tutti questi materiali vengono considerati potenzialmente cancerogeni.

Questo aspetto rimane una delle principali aree su cui concentrare le ricerche in futuro e limitare la diffusione di questi materiali resta un obiettivo sensibile per evitare che l’ambiente marino venga contaminato causando l’avvelenamento della fauna ittica in primis e, successivamente, degli altri anelli della catena alimentare. “Greenpeace ritiene necessaria l’applicazione urgente del principio di precauzione per stabilire regole stringenti e ridurre l’utilizzo di plastica in generale e in particolare di bandire la produzione e l’uso di microplastiche come le microsfere utilizzate nei prodotti cosmetici”.

Gianluca Pedemonte

 

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Il Mare in 3D, Scienza&Società